La terra di circa 100.000 anni fa, quando nacque l’Homo Sapiens, era calpestata da almeno 6 differenti specie di esseri umani, del genere Homus. Come fu possibile per il Sapiens, in breve tempo, avere la meglio rispetto al Neanderthal, partito molto prima di noi, circa 250.000 anni fa? Come fu possibile per “noi” sconfiggere un Homus più forte, più abituato a muoversi in quel mondo ostile, più esperto nella caccia e nella lotta per la sopravvivenza?
Quasi certamente la risposta sta nella comparsa di nuovi modi di pensare e comunicare. Non si tratta evidentemente del primo linguaggio esistente, ogni animale ne ha uno! Né fu il primo linguaggio vocale: molti animali, comprese tutte le scimmie antropomorfe, ne avevano uno.
Dal punto di vista antropologico, il linguaggio umano ha 3 funzioni principali: la possibilità di scambiarsi informazioni più precise sull’ambiente (per esempio nella caccia) e l’utilità sociale di condividere informazioni sui membri del gruppo, ma nessuna di queste prime è un’esclusiva del linguaggio umano. La terza e probabilmente decisiva caratteristica del linguaggio umano è la possibilità di parlare di cose che…non esistono, di questioni astratte, di concetti non concreti e che no trovano riscontro nella “realtà esterna, oggettuale”.
I gruppi di scimmie non riuscivano a vivere in tribù superiori alle 50 unità circa: in un gruppo di 50 individui si possono contare 1225 rapporti biunivoci e innumerevoli altre combinazioni sociali complesse, troppe da alimentare e “manutenere” persino per gli evoluti Neanderthal! Raggiunto questo limite, i gruppi del genere Homus si spaccavano in due gruppi: non riuscivano a socializzare in modo così profondo come solo l’essere umano può fare.
Come può riuscire, un’azienda con migliaia di dipendenti, a farli lavorare insieme? I nostri antenati non riuscivano a farlo neppure per cacciare, noi riusciamo a lavorare mettendo insieme milioni di persone solo grazie al fatto che possiamo parlare di cose che non ci sono. Quando parliamo di liberalismo, individualismo, socialismo, comunismo, fascismo, imperialismo, denaro, religione, parliamo di cose che non trovano nessuna corrispondenza nel mondo degli oggetti ma che ci consentono di identificarci e individuare degli elementi comuni attorno ai quali riunirsi.
Quando parliamo di feedback e quindi di strumenti che permettono di diffondere i valori dell’organizzazione, stiamo parlando di cultura. Non stiamo parlando di “…fuffa, qualcosa che solo l’HR e l’AD ritengono importante, mentre la cosa fondamentale è pensare a produrre…”. Questo tipo di comunicazione è la ragione stessa dell’esistenza dell’essere umano e del suo dominio sugli altri animali e sulle altre specie del genere Homus! L’elemento portante dell’organizzazione è infatti rappresentata dalle relazioni che si instaurano tra gli stakeholder: è questo ciò che ci permette di produrre beni e servizi.
Nel 2000 il 25% dei dati era conservato in forma digitale e solo 7 anni dopo, nel 2007, questo numero era già salito al 97%. Oggi siamo ad una percentuale insignificante di dati non digitali sul totale dei dati circolanti nel mondo. Questo ci fa capire una cosa molto importante: la digitalizzazione, l’innovazione tecnologica e la conseguente rivoluzione che stanno “imponendo” nelle organizzazioni di tutto il mondo, non sono una scelta di opportunità… “Questa non è innovazione dirompente, questa è innovazione devastante” osservano Bertelè, Downes e Nunes nel 2014 (“Big Bang disruption. L’era dell’innovazione devastante”, vedasi Fonti).
Analizzando le previsioni del World Economic Forum di Davos sulle competenze che saranno le più richieste nel 2022, si può notare come l’innovazione, la capacità di apprendere e trasformarsi e adattarsi continuamente e la loro integrazione con le nuove tecnologie sono le grandi sfide cui ci sta mettendo di fronte la trasformazione digitale.
La tecnologia dei “big data” non ha però previsto l’epidemia di Ebola del 2014 o il numero di soggetti contagiati in Liberia e Sierra Leone. Come mai? Perché sono (ancora…) gli esseri umani che creano gli algoritmi per interpretare i dati! Le esperienze quantitative nell’immediato futuro si fonderanno sempre più con le esperienze qualitative. O queste esperienze vengono analizzate dagli esseri umani e capiamo come strutturarle insieme, come leggerle, come interpretarle, usando quindi degli strumenti di misurazione e di analisi che ci facciano capire qualcosa di significativo, oppure lasceremo questa strada ai computer e all’intelligenza artificiale.
Per quale motivi i vecchi modelli di “performance management” sono oggi ritenuti inadeguati? Perché la ciclicità annuale è troppo lenta, burocratica e rigida; perché favoriscono cultura del controllo a discapito del supporto; perché stimolano la risposta lotta-fuga che compromette lo sviluppo. Solo i “bias” (errori che intervengono quando cerchiamo di valutare o ricordare) di memoria sono oltre la quarantina, per cui i vecchi sistemi che si basano sui concetti obsoleti non funzionano e danno risultati senza valore oggettivo valore. Tutto ciò spinge il soggetto alla demotivazione perché i vecchi sistemi di Performance Management (e i modelli di riferimento di People Management da cui scaturiscono…) finiscono per esaltare l’anonimia (aumentano la percezione del soggetto che a nessuno importi di lui), l’irrilevanza (che il soggetto ci sia o no, non importa, è uguale), la non misurabilità (a nessuno importa che il soggetto lavori bene se si rimprovera a dicembre una manchevolezza di gennaio)!
Ci sono 4 grandi tendenze nel mondo rispetto alla valutazione secondo Gartner:
- Feedforward vs Feedback! È inutile focalizzarsi su ciò che è stato, è frustrante e percepito come statico, immodificabile e perciò demotivante. Meglio focalizzarsi su ciò che potrà essere, il domani è pieno di opportunità mentre il passato è statico. Ad esempio, al posto di “Hai fatto ciò…” meglio “Cosa puoi fare di diverso domani…”.
- “Growth Mindset” vs “Fixed Mindset” cioè da qualcosa che è percepito come stabile, e cioè la valutazione del risultato (“Sei bravo” o “Non sei bravo”) ad una valutazione più orientata allo sviluppo di un “growth mindset” ovvero la valutazione del processo (“Vedo che ti sei impegnato molto per raggiungere questo risultato”). La professoressa Carol Dweck, con questo metodo, prese degli studenti svantaggiati provenienti da quartieri poveri, poco acculturati e li ha portati in un solo anno ad essere i primi dello stato di New York delle proprie classi di riferimento come rendimento.
- Feedback 360° vs Feedback Top-Down: valutazione a 360°, da tutti i propri stakeholders e non più solo dai propri responsabili. Coloro che lavorano con te, tutti i giorni, anche se non sono i tuoi capi, possono darti indicazioni precise e utili su come lavori.
- Feedback Continuous vs Once (or Twice…) a Year Performance Review: non ha nessun senso una valutazione occasionale, è quasi sempre completamente scorrelata all’andamento del business, fuori tempo, fuori contesto, percepita come non motivante, inutile per l’apprendimento e lo sviluppo della persona. Meglio che la valutazione sia costante nel tempo, circostanziata e puntuale rispetto agli eventi.
La nostra piattaforma K-Rev va proprio in queste direzioni!
Fonti di riferimento:
● “Sapiens, Da animali a dèi – Breve storia dell’umanità” – Yuval Noah Harari – Bompiani 2017
● “Il nostro futuro – Come affrontare il mondo dei prossimi vent’anni” – Alec Ross – Feltrinelli 2016
● “I 3 segni di un lavoro infame” – Patrick Lencioni – ETAS, 2008
● “Big Bang disruption. L’era dell’innovazione devastante” – Larry Downes, Paul Nunes – Ed. It. Egea 2014
Estratto dall’intervento tenuto all’evento “Formare e Formarsi” organizzato dalle Edizioni Este il 27 settembre 2018 a Milano.