Gestire le persone nell’era dello “smart working”

Una delle parole più “di moda” degli ultimi tempi nelle aziende è senza dubbio lo smart working anche se spesso il termine viene usato con accezioni molto differenti tra loro e non sempre facilmente comprensibili e univoche. Inizialmente tradotto in italiano con il termine “telelavoro” (D.P.R. 70/99) oggi lo smart working ha assunto contorni più ampi di quelli originari. A fine 2014 è stata presentata una proposta di legge per rilanciare il telelavoro e dare maggiore flessibilità alle organizzazioni che ne fanno utilizzo; nella relazione introduttiva è stato introdotto per la prima volta il termine anglosassone “smart working”.

La proposta è stata rilanciata in un disegno di legge collegato al Patto di stabilità 2016 come un completamento del Jobs Act.

A darne ufficiale riconoscimento è però la Legge 22 maggio 2017, n. 81, che definisce una disciplina normativa nella quale il lavoro ‘agile’ è stato configurato come una sorta di ‘patto’, a tempo determinato o indeterminato, che si può aggiungere a un ‘normale’ rapporto di lavoro subordinato. Al dipendente viene lasciata la libertà di svolgere la propria attività anche al di fuori dei più tradizionali luoghi e tempi di lavoro nel rispetto delle condizioni stabilite dall’intesa. La normativa consente, quindi, al datore di lavoro e al lavoratore, con determinati limiti, di raggiungere un accordo su misura che tenga conto delle rispettive esigenze al fine di permettere la massimizzazione dei reciproci vantaggi.

Cosa è lo smart working?

Provando a definire cosa sia lo Smart Working, potremmo descriverlo come un approccio innovativo all’organizzazione del lavoro che si caratterizza per flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari di lavoro e degli strumenti, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Volendo fare una distinzione, prendendo come base di riferimento i diversi luoghi di svolgimento della prestazione lavorativa, possiamo individuare le seguenti tipologie di smart working:

  • Domiciliare: in tal caso il prestatore d’opera lavora dal proprio domicilio e comunica con l’azienda utilizzando un PC (ma anche fax e/o altri strumenti) connesso stabilmente alla rete aziendale, oppure collegandosi solo per la ricezione e l’invio del lavoro.
  • Centro satellite: in questo caso il lavoratore sosta fisicamente in una filiale appositamente messa a disposizione dall’azienda. Diversamente dalla classica filiale aziendale, nata per soddisfare le esigenze dei clienti che risiedono in una determinata zona geografica, il ‘centro satellite’ nasce per facilitare il lavoro dei dipendenti di un’area specifica che a loro volta possono erogare servizi a diversi clienti (si pensi ad esempio a un call center).
  • Mobile: è il caso in cui la prestazione si svolge per mezzo di un PC portatile e di altri strumenti mobili (cellulari, palmari, ecc.) e spesso riguarda rapporti di lavoro tra professionisti autonomi e azienda.
  • Telecentri o telecottages: il telelavoro è svolto in centri creati per lo scopo da un consorzio di aziende, da una azienda singola o anche da enti pubblici.
  • Remotizzazione: in questo caso il lavoro viene svolto da più persone che si trovano in luoghi diversi ma collegate tra loro.
  • Sistema diffuso d’azienda: con tale termine si suole indicare la cosiddetta azienda virtuale, vale a dire un’azienda che di fatto esiste solo in rete. Una delle aziende “virtuali più famose al mondo è la Automattic, gestita da Matt Mullenweg, un 32enne di San Francisco. Si tratta di un’azienda da 1 miliardo di dollari senza uffici ed email; probabilmente sconosciuta ai più eppure è la società che ha ideato WordPress, la piattaforma per gestire contenuti più famosa al mondo: più di 60 milioni di siti sono realizzati con WordPress in tutto il globo.

Chi sono gli smart worker?

Per comprendere meglio cosa sia lo smart working conviene forse provare a descrivere il profilo di un tipico “smart worker”, ribattezzato con il termine “lavoratore nomade” nel testo “Smart Working & Smart Workers” di Tiziano Botteri e Guido Cremonesi. Lo smart worker, per dirlo con le parole degli autori, è una persona che lavora in modo completamente nuovo rispetto a un passato fatto prevalentemente di lavoro stanziale: “Lavora dove vuole e quando serve, non ha orari fissi, utilizza strumenti informatici per svolgere la propria attività ovunque.

La categoria comprende sia freelance che dipendenti, sia Millennials che cinquantenni. Non coincide con il telelavoro. È una modalità nuova di lavorare favorita indubbiamente dalle nuove tecnologie, ma anche dalla trasformazione in senso “smart” sia del lavoro in sé che delle organizzazioni”.

La previsione degli autori è che col tempo il prefisso smart perderà la propria specificità e che tutti coloro che lavorano saranno, in qualche misura, degli “smart worker”.

Secondo una ricerca del 2012 curata dall’Osservatorio dello Smart Working del Politecnico di Milano, prendendo in esame la modalità di lavoro prevalente e gli strumenti informatici utilizzati, si possonoindividuare 3 diverse tipologie di smartworker:

  1. il distant, o mobile worker, è chi lavora fuori dall’ufficio o in mobilità per almeno metà del suo tempo professionale;
  2. il flexible worker è chi gode di autonomia nella personalizzazione dell’orario di lavoro in funzione delle proprie esigenze, ad esempio familiari;
  3. l’adaptive worker è chi svolge il proprio lavoro utilizzando propri device personali o strumenti aziendali scelti in prima persona.

La gestione degli smart worker

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una significativa evoluzione dei sistemi di direzione aziendale, dovuta principalmente alla presa d’atto, da parte del management, dell’inadeguatezza dei “vecchi” sistemi gestionali all’interpretazione e alla gestione delle complessità della realtà odierna.

Da quando l’economista e saggista austriaco naturalizzato statunitense Peter Drucker coniò il termine e il modello del ‘Management By Objectives’ (MBO), molta acqua è passata sotto i ponti delle organizzazioni e dei relativi modi di gestirle. Prima di allora, il metodo più frequentemente utilizzato per la gestione dei dipendenti delle organizzazioni da parte dei manager era denominato ‘Management by Instructions’ (MBI), cioè la gestione per istruzioni.

Sempre di più nelle organizzazioni odierne si pone il problema di come raggiungere gli obiettivi in condizioni di competizione sfrenata, risorse limitate e alta variabilità dei contesti.

L’ingresso, o meglio l’irruzione, degli smart worker in azienda complica ancora di più lo scenario in cui si dipana il rapporto tra collaboratore e manager. Il tema principale che viene messo completamente in discussione è quello del controllo del lavoro: vi è la “nuova” necessità, da parte dell’azienda, di ridisegnare il rapporto, in chiave professionale, tra vincoli e libertà del lavoratore.

Se l’MBO aveva già indicato la rotta da seguire e cioè non dare istruzioni e attività da svolgere, ma obiettivi da raggiungere e controllarne lo stato di avanzamento e l’esito, l’assenza “fisica” dello smart worker dal luogo dove il responsabile poteva esercitare un controllo diretto del lavoro richiede un’ulteriore evoluzione del rapporto professionale con l’azienda in termini di fiducia.

Esistono tre grandi punti cui bisogna prestare attenzione nel disegnare nuovi modelli manageriali per la gestione degli smart worker:

  1. Confini – si intende qui la calibrazione e il (ri)equilibrio di spazi, tempi e luoghi professionali rispetto a quelli personali. PC, smartphone, chat, sistemi di video-conference hanno reso tutti i lavoratori, a maggior ragione gli smart worker, sempre più connessi, sempre più reperibili, ma allo stesso tempo sempre più tracciabili, sempre più operativi, sempre più pronti all’azione. Non è infrequente trovare manager, nelle aziende in cui presto la mia consulenza come coach o trainer, che inviano mail ai propri collaboratori alle quattro di mattina, con la scusa di soffrire di insonnia! Per lo smart worker, che lavora prevalentemente o esclusivamente da solo, diventa particolarmente importante la capacità di organizzarsi il lavoro, gli spazi, i tempi e i luoghi in modo certamente flessibile, ma allo stesso tempo deve essere rispettoso di tutte le componenti della vita del soggetto: quella professionale e quella personale, familiare, ecc.
  2. Delega – L’aspetto della delega diventa il vero punto di snodo da cui deve passare l’evoluzione del modello manageriale. La gestione per obiettivi diventa imprescindibile con gli smart worker, ma come verificarne l’avanzamento, cioè quali meccanismi di follow up e follow through si possono introdurre? Quali le regole di ingaggio? Fin dove possono estendersi la flessibilità e l’autonomia? A queste domande il nuovo modello dovrà dare risposte. Là dove il controllo esteso non è più possibile diventa fondamentale ripensare il rapporto di fiducia tra capo e collaboratore in termini di estrema chiarezza e condivisione nella definizione e attribuzione di obiettivi e nella scelta degli indicatori di performance utilizzati.
  3. Strumenti – L’era della digital transformation mette a disposizione di manager e collaboratori nuovi strumenti di comunicazione sempre più efficienti, performanti, precisi: video-call, webinar, meeting da remoto, chat, mail, sistemi informatici per il monitoraggio di attività e comportamenti permetteranno e, allo stesso tempo, richiederanno di stabilire nuovi metodi e nuove regole nella gestione della relazione non solo tra capi e collaboratori, nelle due direzioni, top-down e bottom-up, ma anche tra pari (peer to peer o P2P).

Le nuove competenze richieste agli smart worker… e ai loro capi

Nel report 2016 del World Economic Forum Annual Meeting (www.weforum.org) – che ogni anno vede riuniti a Davos, in Svizzera, guru del management, della politica dell’economia e della finanza mondiale – vennero evidenziate quali sarebbero state, nel quinquennio successivo, le 10 soft skill più richieste nelle organizzazioni di tutto il mondo.

Benché rispetto alla classifica delle top ten 2015 non vi fossero sostanziali differenze rispetto alle voci presenti (usciva la competenza di Quality Control ed entrava l’Emotional Intelligence), a variare significativamente era invece l’ordine di priorità. Dalla tabella emerge infatti che le “Top 10 soft skills” si stanno polarizzando rispetto a 3 aree chiave, nell’ordine: innovazione (le prime, 1, 2 e 3); relazione con

gli interlocutori professionali (dalla 4 alla 7) e integrazione di processi bisogni (dalla 8 alla 10).

Gli smart worker rientrano ovviamente in questo trend, anche se, in tal caso, la forte autonomia e flessibilità intrinseche in un tale paradigma di lavoro, suggeriscono di integrarle con uno specifico set di competenze, comportamenti e attitudini che diventano nevralgici in una situazione di lavoro a distanza. Tra queste non possono certamente mancare capacità di: accountability; imprenditorialità; organizzative; di pianificazione delle attività e gestione delle priorità; di analisi e di decisione; di gestione nuovi strumenti di comunicazione; di gestione del cambiamento; di velocità di risposta… unite a positività, entusiasmo affidabilità, integrità.

Cambia radicalmente, di conseguenza, anche la valutazione di quali competenze di leadership debbano avere i manager degli smart worker. Qualsiasi processo serio di introduzione nell’organizzazione di logiche di smart work non può prescindere infatti da una rivisitazione sostanziale del ruolo centrale e cruciale dei capi, sia in qualità di gestori di personale in smart work, sia come, eventualmente, a loro volta smart worker.

Se da un lato la maggiore autonomia e libertà previste da questa modalità di lavoro possono sicuramente essere percepite dallo smart worker come forze positive ed energizzanti, dall’altro lo smart worker deve “elaborare il lutto” della separazione fisica dall’organizzazione.

Il luogo fisico, gli uffici, le persone, persino i vincoli degli orari di lavoro sono veri e propri “contenitori emotivi” che svolgono spesso una funzione di rassicurazione. Doversi confrontare solo con sé stessi, organizzarsi il lavoro da soli, non poter scambiare 4 chiacchiere col collega né potersi confrontare con qualcun altro prima di prendere una decisione possono essere dimensioni molto ansiogene per lo smart worker. È in questo quadro che, paradossalmente, emerge ancora più che in passato la necessità di avere manager “empatici” e “relazionali” per bilanciare la freddezza derivante dalla distanza e l’isolamento che tipicamente si trova a dover fronteggiare lo smart worker.

Non avendo a disposizione la “vicinanza” fisica, lo “smart” manager deve avere capacità di “prossimità”, intendendo con questo la capacità di gestire persone e sviluppare spirito di collaborazione nei team a distanza, di trasmettere una visione comune a persone che non si vedono e non si incontrano periodicamente, così come la capacità di cogliere esigenze dai segnali deboli e di farsi interprete di bisogni e aspirazioni delle proprie risorse con particolare sensibilità e calore relazionale, dando particolare valorizzazione alle interazioni umane e di persona, in un mondo così smart digitale e virtuale.

Strumenti digitali innovativi di gestione e valutazione delle performance degli smartworker

In ogni azienda in cui ho lavorato come consulente, a ogni livello organizzativo, il momento della valutazione delle performance dei propri collaboratori di fine anno è vissuto dai manager (e da molti collaboratori…) come un’esperienza da “incubo” più che un’occasione di crescita per il personale e per l’organizzazione.

Le lamentele sono svariate e tutte condivisibili: si va dallo spreco di tempo (in media, un manager che deve valutare 5 collaboratori impiega un impiego circa 3 giorni lavorativi) all’impossibilità di ricordare l’andamento dei vari comportamenti e delle performance di inizio anno; dal mancato supporto della funzione HR alla declinazione delle competenze, soprattutto quelle soft, in comportamenti specifici, per arrivare alla inutilità, per i manager stessi, dell’enorme quantità di informazioni così faticosamente raccolte!

E stiamo parlando di collaboratori che i manager vedono quasi tutti i giorni! Immaginate quanto il problema possa ingigantirsi nel caso di gestione di smart worker.

Anche il responsabile delle risorse umane il processo è tutt’altro che idilliaco. Le lamentele più diffuse riguardano per esempio il fatto che i manager danno feedback basati principalmente sul proprio intuito e non su dati reali e oggettivi, oltre al cronico ritardo nella compilazione e nella consegna che costringe il responsabile delle risorse umane a programmare eventuali interventi correttivi (training, coaching, ecc.) con mesi/anni di ritardo rispetto al momento dell’osservazione.

A questo punto è inevitabile porsi una domanda: come mai persino i bravi manager spesso inseriscono dati nella performance review poco verosimili, “generosi”, livellati e molto discordanti rispetto ad altri KPI di performance aziendali (di volumi, valore, costi, servizio, tempo, efficienza ed efficacia, interna od esterna)?

La motivazione è da ricercarsi nella strumentazione che (non) hanno a supporto dell’intero processo.

La valutazione delle performance, infatti, a causa delle limitazioni della mente umana, è inevitabilmente soggetta ai cosiddetti “bias cognitivi”, in particolare quelli di memoria, veri e propri errori di valutazione o mancanze di oggettività di giudizio che portano ad interpretazioni delle informazioni non coerenti con l’evidenza dei fatti.

Non è questione di mancanza di competenza o di superficialità manageriale: è impossibile, con i sistemi di valutazione tradizionali, riuscire ad analizzare rapidamente lo stato delle competenze soft del collaboratore, al massimo si riescono a fare un paio di “fotografie” l’anno (middle year review e annual review), solitamente imprecise e superficiali.

Oggi siamo nell’era dei Big Data. Secondo un’opinione diffusa, e allo stesso tempo profondamente errata, i progressi resi possibili dai Big Data sarebbero semplicemente una funzione della mole di dati raccolti.

Niente di più sbagliato. Il cambiamento non è solo quantitativo ma strutturale, come ben spiega nel testo “Il nostro futuro” l’esperto di tecnologia Alec Ross:“…si pensi alle lettere e ai telegrammi che in passato recavano dati commerciali. Contenevano quantità colossali di informazioni, ma su niente di tutto ciò era possibile fare ricerche, niente era utilizzabile su una scala di massa. Il valore proveniente dai Big Data deriva… (dal)la nostra capacità di usarli in tempo reale per prendere decisioni più razionali, più efficienti”.

È questo il vero significato della rivoluzione 4.0 nel mondo del business in generale, in quello della funzione HR in particolare: il passaggio dall’avere una fotografia dell’andamento aziendale che, per quanto precisa e nitida, porta sempre con sé i limiti di una situazione statica, al poter disporre di strumenti che mostrano finalmente un film, dinamico e in continuo movimento, dell’azienda e delle sue risorse. Grazie alle nuove tecnologie, a smartphone e tablet sempre più potenti, è oggi finalmente possibile dotare manager, smart worker e direzioni aziendali, di strumenti che consentano il controllo, il monitoraggio e lo sviluppo dei collaboratori in tempo reale, anche di quelli più “remoti”.

L’articolo “Gestire le persone nell’era dello “smart working”” è stato pubblicato sulla rivista Officelayout 174 luglio-settembre 2018.

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5 Ott 2018

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